Almanacco del 7 agosto, anno 2008: le forze terrestri georgiane intervengono in Ossezia del Sud dove da sei giorni circa imperversa uno stato di guerra fra le milizie ossete separatiste filo-russe (immediatamente supportate da truppe regolari russe) e le forze di peace-keeping legittimamente schierate da Tbilisi secondo accordi internazionali. Il 7 agosto 2008 il breve conflitto russo-georgiano raggiunge il suo apogeo.

In primis è necessaria una breve ma utile contestualizzazione storica. Mentre l’Unione Sovietica si dissolveva nel 1991, la Repubblica Socialista Sovietica Georgiana dichiarò l’indipendenza. All’interno di un simile quadro generale, scoppiò la prima guerra in Ossezia del Sud. Il conflitto vide esasperarsi la contrapposizione fra la Georgia e i diversi territori contrari ad accettare la sovranità di Tbilisi, dunque separatisti. La guerra, durata fino al 1992, non risolse moltissimo. Essa lasciò l’ex “oblast’ autonoma dell’Ossezia del Sud” de facto sotto il controllo dei separatisti sostenuti dalla Russia ma non riconosciuti a livello internazionale. L’accordo per la cessazione delle ostilità previde il mantenimento di una forza di peace-keeping multipla, composta da militari russi, osseti e georgiani.
Su un piano politico bisogna registrare due avvenimenti, preliminari ed essenziali se correlati al conflitto del 2008. Nel 2000 nella Federazione Russa salì al potere Vladimir Putin; tre anni dopo in Georgia si è verificato un rivolgimento politico pro-occidente. Due eventi che hanno dato inizio ad un progressivo deterioramento delle relazioni fra Russia e Georgia. Deterioramento che nel luglio 2008 ha condotto ad un vero e proprio stato di guerra, seppure a bassa intensità. A causarlo furono diversi episodi controversi, come un abbattimento di un drone georgiano da parte di un aereo da combattimento russo (in aprile), l’omicidio di un ufficiale osseto separatista e il tentato assassinio del leader osseto filo-georgiano (entrambi in luglio).

Quindi nei giorni che precedettero l’intervento georgiano del 7 agosto, la situazione in Ossezia del Sud era già estremamente tesa. Lungo tutta la prima settimana di agosto si erano intensificati gli scambi di colpi di artiglieria tra i separatisti osseti – appoggiati de facto da Mosca – e le forze di mantenimento georgiane. I bombardamenti sempre più violenti contro i villaggi georgiani nella regione avevano provocato decine di vittime e uno sfollamento crescente della popolazione civile.
Le autorità georgiane, in particolare il presidente Mikheil Saakashvili, tentarono inizialmente una strada diplomatica. Il 7 agosto, in un discorso pubblico, Saakashvili annunciò un cessate il fuoco unilaterale. Affermò che la Georgia non avrebbe risposto alle provocazioni separatiste nel tentativo di “non cadere nella trappola”. Nonostante questo gesto, i bombardamenti da parte delle milizie ossete non cessarono, e anzi si intensificarono durante la notte.

Secondo il rapporto finale della Commissione Tagliavini, istituita dall’Unione Europea per stabilire le responsabilità nel conflitto, già in quelle ore reparti regolari dell’esercito russo avevano attraversato il tunnel di Roki, ovvero il principale collegamento in Transcaucasia tra la Russia e l’Ossezia del Sud, posizionandosi all’interno del territorio de iure georgiano prima ancora della controffensiva di Tbilisi. Non sfugga l’importanza di quanto affermato e comprovato. Ciò indica che Mosca, al di là delle dichiarazioni successive, si stava preparando a un’operazione su larga scala già prima della decisione georgiana di intervenire.
Nella tarda serata del 7 agosto la Georgia diede inizio all’operazione militare con un obiettivo dichiarato: “ristabilire l’ordine costituzionale” nei territori separatisti. Le forze terrestri georgiane avanzarono rapidamente verso Tskhinvali, il capoluogo dell’Ossezia del Sud. Nelle prime ore dell’8 agosto, i georgiani riuscirono a entrare nella città e a conquistarne gran parte, colpendo anche edifici utilizzati come basi delle milizie separatiste.
Fonti georgiane sostennero che l’operazione fu una reazione proporzionata a giorni di bombardamenti. Un dovuto atto militare che aveva l’obiettivo di fermare le violenze contro la popolazione civile georgiana residente nei villaggi della regione. Tuttavia, le modalità dell’offensiva suscitarono perplessità, soprattutto per l’intensità del bombardamento d’artiglieria su Tskhinvali, che provocò gravi danni a infrastrutture civili e un numero imprecisato di vittime.

La Russia di Putin denunciò l’azione come “un’aggressione” e annunciò una “operazione di peace-enforcement”. Mosca dunque si presentò come protettrice della popolazione osseta e dei propri “peacekeepers” presenti nella regione (anche se questi ultimi non erano neutrali e operavano de facto a fianco dei separatisti). Nel concreto, la risposta militare russa fu rapida e massiccia. Colonne corazzate attraversarono il tunnel di Roki e iniziarono a spingere indietro le forze georgiane. Dal 7 agosto 2008 la guerra russo-georgiana entrò nel vivo. Una guerra che provocò oltre 192.000 sfollati e alla quale ancora non si è posta una pietra conclusiva. Nel 2021 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito «che la Russia mantiene il ‘controllo diretto’ sulle regioni separatiste ed è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani che si verificano nelle regioni».
La risposta militare georgiana del 7 agosto fu per certi versi un azzardo fin troppo grande per le ambizioni geopolitiche del governo caucasico. La Georgia perse il controllo di fatto di Ossezia del Sud e Abcasia, vide una porzione importante del suo territorio temporaneamente occupata, e dovette affrontare un lungo isolamento politico-militare. Per Mosca, invece, fu la prova generale di un nuovo paradigma di intervento, poi replicato nel 2014 in Crimea e nel 2022 in Ucraina.