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ercole esperidi

Il furto dei pomi d’oro delle Esperidi: l’undicesima delle dodici Fatiche di Ercole

A re Euristeo piaceva parecchio rubare le cose altrui. O meglio: si dilettava nell’escogitare prove in cui Ercole dovesse sottrarre questa o quell’altra cosa. Per l’undicesima delle dodici Fatiche di Ercole ecco che decise che l’eroe dovesse rubare per lui i pomi d’oro delle Esperidi. Solo che: i pomi si trovavano nel Giardino di Era (la quale già odiava a morte Ercole), il giardino si trovava ai confini del mondo in un posto non esattamente noto sulle mappe (anche parecchi immortali non sapevano dove geolocalizzarlo), erano sorvegliati da Ladone, simpatico drago dalle cento teste e fra l’altro si vociferava che i mortali non potessero toccarli. Cosa poteva mai andare storto in questa missione?

Come Ercole rubò i pomi d’oro delle Esperidi

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Crediti foto: @Musei di Liverpool

Partiamo dalle basi: cosa erano questi pomi d’oro? Tutto inizia con le nozze di Zeus ed Era. Gea, la Madre Terra, come regalo di nozze donò a Era un ramo con una singola mela d’oro. Si diceva che mangiare una di queste mele fosse sufficiente per garantire l’immortalità. Era si innamorò subito del dono e chiese alla nonna di poter piantare il ramo in giardino in modo da mettere su una produzione costante di mele.

Così Gea piantò il ramo su un’isoletta all’estremità occidentale del mondo. Era spedì le Esperidi a prendersi cura del meleto e queste ultime acconsentirono, mangiandosi ogni tanto quale mela. Per paura che le Ninfe si pappassero tutte le mele, ecco che Era ordinò a Ladone, un immortale drago serpentino dalle cento teste, di sorvegliarle.

Ladone, a sua volta, era figlio di Forco e Ceto, divinità primordiali marine e fratello minore di Echidna, la madre dei mostri. Un’altra versione della storia racconta che Era mandò Ladone a sorvegliare il giardino dopo che Afrodite rubò tre pomi per aiutare Ippomene a vincere la gara podistica contro Atalanta. Essendo così ben sorvegliato, nel corso del tempo altre divinità iniziarono a usare il Giardino di Era per conservarvi i loro manufatti magici. E fra di essi figuravano l’elmo dell’invisibilità di Ade, lo scudo di Atena e i sandali di Hermes.

Giustamente vi starete chiedendo chi fossero le Esperidi. Erano le ninfe della sera, dell’occidente e dei tramonti. Chiamate anche Figlie della Sera, erano figlie di Nyx, a dea della notte e di Erebo, la personificazione primordiale dell’oscurità. Secondo altri miti, invece, erano figlie di Forco e Ceto o di Zeus e Temi o di Atlante il Titano e di Esperide, una delle dodici dee delle stagioni e delle ore.

Anche il loro numero varia in base ai miti. Potevano essere tre, quattro o sette. E anche i loro nomi variano, ma solitamente troviamo citate Egle, Eritea, Esperia e Aretusa. Molto belle, erano anche abilissime cantanti. Torniamo così a Ercole. Prima di tutto, doveva capire dove dirigersi. C’erano diverse teorie, che indicavano tutte posti diversi. E così Ercole risolse la situazione nella sua inimitabile maniera: si mise in cammino a caso, in una direzione qualsiasi.

Durante il viaggio transitò per Iperborea, regno degli Iperborei che veneravano solamente Apollo e i cui grifoni custodivano montagne d’oro. Qui incontrò le ninfe del fiume Eridano che gli suggerirono di chiedere a Nereo, il Vecchio del mare, una divinità marina minore, ma assai antica visto che era figlio di Gea e di Ponto, la personificazione primordiale del mare.

Nereo era una divinità gentile, amava cambiare forma, aveva il dono della profezia e non sapeva mentire. Ercole trovò Nereo, ma questi si rifiutò di aiutare l’eroe. Ma Ercole insistette e mentre Nereo cercava di scappare, ecco che Ercole lo afferrò prontamente. Solo che Nereo cambiò forma e da anziano pescatore divenne un pesce. Ma Ercole fu inamovibile. Poi Nereo si trasformò in foca, lontra, polpo, cetriolo di mare e riccio di mare.

Ma Ercole non mollava ancora. Nereo arrivò a trasformarsi in acqua e fuoco, ma Ercole continuava a non desistere. Così Nereo tornò a essere un pescatore e si rassegnò a spiegare a Ercole come raggiungere le Esperidi. Nereo spiegò a Ercole che in realtà si era avvicinato parecchio alle Esperidi quando era andato sull’isola di Eritea per rubare il bestiame di Gerione. Così l’eroe dovette di nuovo attraversare il deserto libico nella speranza o di trovare le Esperidi o la coppa d’oro di Elio che gli avrebbe permesso di raggiungere l’isola delle Esperidi.

Ercole salpò dalla Grecia verso Creta e poi si recò in Egitto. Qui incontrò il re egizio Busiride, sovrano crudele e che aveva l’amena abitudine di sacrificare a Osiride tutti gli stranieri che entravano nel suo regno. Venuto a conoscenza di tale pratica, Ercole si fece catturare volontariamente.

Arrivato il momento in cui doveva essere sacrificato sull’altare del re, ecco, proprio mentre il sovrano stava per pugnalarlo, Ercole reagì, lo disarmò e pugnalò il re a sua volta. Sconfisse anche guardie e sacerdoti, mettendo fine a tale pratica. E già che c’era ribattezzò la città o Tebe, come la sua città natale o Ecatompoli.

Poi Ercole ripartì e attraversò il deserto libico. Fra la Libia e il Marocco inciampò in un tempio costruito tutto di ossa, proprio in riva al mare. Al di fuori del tempio sostava Anteo, un gigante figlio di Gea e Poseidone. Anteo si dilettava nello sfidare i viaggiatori a incontri di lotta. Chi perdeva, doveva morire.

Inutile dire che, finora, il gigante era imbattuto e che usava le ossa degli avversari per costruire il tempio dedicato al padre. Ercole decise così di lottare contro Antea e riuscì ad averne presto la meglio, inchiodandolo a terra. Ma improvvisamente Anteo si liberò senza sforzo dalla presa dell’eroe. Il che era strano: la presa di Ercole avrebbe dovuto uccidere Anteo. Tuttavia non solo quest’ultimo si era liberato, sembrava anche più pimpante di prima.

La scena si ripeté diverse volte, fino a quando Atena non sussurrò a Ercole il segreto di Anteo. Il gigante prendeva la sua forza dalla madre, Gea. Quindi ogni volta che toccava terra, si rinvigoriva. Così Ercole acchiappò di nuovo Anteo e al posto di schiacciarlo a terra, lo tenne sollevato sopra la sua testa. Le forze del gigante scemarono man mano, fino a quando Anteo non morì. Non si sa bene come, forse usò la coppa di Elio, ma dopo aver sconfitto Anteo in qualche modo Ercole riuscì ad arrivare nel Giardino delle Esperidi.

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Crediti foto: @Paul Peter Rubens, Museo Nazionale del Prado

Arrivato qui, Ercole udiva il dolce canto delle ninfe e poteva vedere il frutteto con i suoi pomi d’oro scintillanti, ma non vide le ninfe da nessuna parte. Quello che invece vide benissimo fu il drago Ladone, dalle squame rosse e nere, che non dormiva mai e che aspettava in agguato di acchiappare eventuali intrusi.

Ercole di mostri giganteschi ne aveva già visti, pensiamo all’Idra di Lerna, ma anche al Leone di Nemea, al Cinghiale di Erimanto (che, tecnicamente parlando, non era un mostro, ma solo un cinghiale più feroce e gigante del solito), agli uccelli del lago Stinfalo o alle carnivore cavalle di Diomede. Ma Ladone li superava tutti: era enorme.

Ercole si approcciò a Ladone mettendo in atto la tattica usata contro l’Idra di Lerna. Ma non funzionava: il combattimento ravvicinato con cento teste di drago era escluso a priori. Così si ritirò a distanza di sicurezza e iniziò a bersagliare Ladone con le frecce intrise del veleno dell’Idra. Questa tattiva fu vincente: il drago cadde a terra morto.

Ercole entrò così nel Giardino di Era e allungò una mano per cogliere una mela d’oro. Nella frenesia del viaggio e dei combattimenti, però, Ercole si era dimenticato di un dettagliuccio: nessun mortale poteva toccarle. Ogni volta che provava a raccoglierne una, questa spariva e ricompariva su un ramo diverso, sempre fuori dalla sua portata. Dopo diversi tentativi, Ercole capì l’antifona e si risolse a cercare un’altra soluzione. Chiedere a un immortale di rubarle per lui era fuori discussione: nessuno si sarebbe messo direttamente contro Era.

Così Ercole capì che doveva iniziare una ricerca nella ricerca: doveva trovare un modo per raccogliere le mele. E così sfruttò nuovamente la sua tecnica segreta: partì di nuovo a casaccio, senza meta e senza direzione. Andando alla deriva per mare, attraversò il Mediterraneo e arrivò vicino al Mar Nero. Stanco di viaggiare nella coppa d’oro (non è ben chiaro quanto fosse dotata di comodità), ecco che la ancorò vicino ai Monti del Caucaso e iniziò a cercare aiuto.

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Crediti foto: @Carl Bloch, Ribe Kunstmuseum

Mentre attraversava la catena montuosa, sentì una voce che lo chiamava. Arrivò così sulla vetta più altra, il Monte Elbrus. E qui in cima trovò un uomo legato al monte con pesanti catene. Un’aquila enorme calò dall’alto e strappò il fegato al prigioniero, volando poi via. L’uomo era chiaramente Prometeo, l’uomo che aveva rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini e che Zeus aveva punito legandolo in cima a un monte e ordinando a un’aquila di nutrirsi tutti i giorni del suo fegato (il fegato ricresceva ogni notte).

Ma Ercole non sapeva nulla di Prometeo. Tutto quello che sapeva era che lì c’era un uomo che gli stava chiedendo aiuto. Così Ercole imbracciò l’arco e scoccò una freccia, uccidendo l’aquila. Il prigioniero spiegò poi a Ercole chi fosse. Fra l’altro, Prometeo aveva anche il dono della preveggenza, per questo sapeva che Ercole sarebbe transitato di lì.

Per ringraziare l’eroe, gli disse di andare su una catena montuoso che sorgeva ai margini occidentali del deserto libico. Qui avrebbe trovato Atlante, il fratello di Prometeo. E a lui avrebbe dovuto chiedere di raccogliere le mele.

Ma c’era un piccolissimo problema: Atlante stava reggendo sulle sue spalle Urano, il cielo. Questa era un’altra punizione di Zeus dovuta al fatto che, durante la Titanomachia, cioè la guerra fra i Titani e gli Dei dell’Olimpo, mentre Prometeo si era schierato con Zeus, Atlante si era unito allo schieramento opposto. La battaglia fu così distruttiva che alla fine Urano, il cielo, non riuscì più a sostenersi da solo. Così, dopo la vittoria degli Olimpi, Zeus punì Atlante costringendolo a sorregge Urano per l’eternità. Prometeo rivelò a Ercole che Atlante era in buoni rapporti con le Esperidi. Spesso, infatti, le Esperidi gli facevano compagnia durante la sua punizione.

Così Ercole, dopo aver liberato Prometeo, partì alla ricerca di Atlante. Ma non prima che Prometeo avvisasse l’eroe che Atlante era un po’ truffaldino. Arrivato da Atlante, quest’ultimo accettò di aiutare Ercole. Solo che aveva un problemino: non poteva andarsene. Chi avrebbe sostenuto il cielo? Così Atlante suggerì furbescamente a Ercole di addossarsi lui il peso del cielo. Atlante rassicurò Ercole: sarebbe andato a prendere le mele e poi sarebbe tornato pronto a riprendersi il cielo sulle spalle. Ercole non poté far altro che accettare. Il cielo pesava tantissimo, ma Ercole lo sollevò per giorni, senza mai lamentarsi.

Finalmente Atlante tornò con un cestino e tre mele d’oro. Poi si offrì di portarle lui stesso a Euristeo. Ercole, memore delle parole di Prometeo, capì benissimo: Atlante non aveva alcuna voglia di riprendersi il cielo sulle spalle. Per questo, mentre Atlante si dedicava al furto, Ercole aveva studiato un piano.

Prima che Atlante se ne andasse, Ercole gli chiese se poteva riprendersi il cielo sulle spalle per un attimo, giusto il tempo di sistemarsi bene il mantello per imbottirsi il collo. Atlante era un furbacchione, ma era anche un po’ tontolotto: simpatizzando con Ercole, accettò lo scambio. Ma mentre Atlante si caricava di nuovo il cielo sulle spalle, Ercole acchiappò al volo il cestino di mele e corse via, inseguito dai ruggiti (e supponiamo anche dagli insulti) di Atlante.

Ercole tornò senza problemi a Tirinto. Euristeo era alquanto infastidito dalla riuscita della prova. Questo anche perché sapeva bene di non potersi tenere le mele, visto che appartenevano ad Era, la protettrice di Euristeo. Così quella notte il re mise le mele nel tempio di Era e Atena si occupò di riportarle alle Esperidi. Così a Euristeo non rimase altro che indicare a Ercole quale sarebbe stata la sua dodicesima e ultima fatica: catturare Cerbero, il cane a tre teste guardiano degli Inferi.