Israele possiede l’arma atomica. Lo so io, lo sapete voi, lo sanno tutti coloro che dentro la scatola cranica contengono materia cerebrale. Un dato pressoché incontrovertibile, ma che, ancora oggi, non può essere sbandierato ai quattro venti per paura di ritorsioni da parte di Tel Aviv. Eh già, le cose stanno così, dal momento che Israele ci tiene a mantenere il segreto di pulcinella intatto, anche se – l’avrete capito – è un segreto solo per modo di dire. Le ritorsioni alle quali alludo non sono mica immaginarie, ma traggono la loro ragion d’essere da presupposti concreti, storicamente accertati. Qualcuno provò a rivelare al mondo l’esistenza di un arsenale nucleare israeliano, e quel qualcuno se l’è passata piuttosto male. Si chiama Mordechai Vanunu, un uomo che negli anni ’80 sacrificò la propria integrità di cittadino libero in nome di una verità più grande, per quanto scomoda.

Potrei introdurvi alla tematica in tanti modi diversi, ma decido di farlo in una maniera tale da rendervi chiara, prima di ogni cosa, l’indeterminatezza della questione nucleare israeliana. Indeterminatezza artificialmente costruita e dal governo dello Stato ebraico indotta; pare ovvio anche sottolinearlo. Questa vicenda affonda le sue radici negli anni ’50 dello scorso secolo, quando Israele intraprese un programma nucleare con il sostegno decisivo della Francia gollista, ufficialmente giustificato come un progetto civile di produzione di energia.
Produzione di energia, desalinizzazione delle acque, riqualificazione del territorio in funzione agricola. Scuse ben assestate per giustificare l’esistenza dell’impianto di Dimona, nel deserto del Negev, ad una trentina di chilometri ad ovest del Mar Morto. Insomma, la centrale di Dimona era un impianto di separazione del plutonio, messo a punto per uso militare. Già negli anni ‘70 circolavano sospetti ben fondati che Israele avesse accumulato materiale fissile sufficiente a produrre decine di testate. Tuttavia, per motivi che definirei “diplomatici e strategici”, Tel Aviv adottò la simpatica tattica del mutismo selettivo. La dottrina del “si sa ma non si dice” servì ad evitare pressioni internazionali e scatenare una corsa agli armamenti in Medio Oriente.

In un simile contesto si mosse la figura di Mordechai Vanunu. Egli nacque nel 1954 a Marrakech, da una famiglia ebraico-marocchina osservante. All’età di 9 anni, perciò nel 1963, emigrò con tutta la sua famiglia nell’entità sionista in Palestina. Vanunu crebbe in un ambiente segnato da una discriminazione culturale, vista la sua origine orientale, contrastante con la maggioranza aschenazita (europea) al potere in Israele. Fu una specie di esperienza di marginalità, la quale probabilmente finì per alimentare in lui un senso di frustrazione sociale e risentimento verso la struttura gerarchica dello Stato ebraico. Il quadro così presentato giustifica l’affiliazione politica di Vanunu, vicino negli anni ’70 e ’80 alle istanze del popolo palestinese e nettamente contrario alla politica estromettente adottata nei loro confronti.
Eppure, nonostante questo retroterra sociale e politico, Vanunu trovò lavoro nella già citata centrale di Dimona, nel 1976. Vi trascore anni senza destare sospetti di alcun tipo. E nel mentre che ciò accadeva, i sentimenti anti-aschenaziti mutavano in sentimenti anti-israeliani. Condivise il credo politico con gruppi pacifisti e movimenti per i diritti dei palestinesi, si convertì al cristianesimo e finalmente nel 1986 scoperchiò il vaso di pandora.
Svuotò il sacco su tutto ciò che accadeva all’interno degli impianti situati nel Negev. Lo fece di fronte ai giornalisti del Sunday Times, uno dei principali quotidiani britannici dell’epoca. Nel giro di pochi mesi fornì dettagli essenziali inerenti testimonianze dirette, piani energetici-militari, scatti fotografici a dir poco compromettenti. Facendo un veloce riassunto di quanto affermato, Mordechai Vanunu rivelò al mondo l’esistenza di un portentoso arsenale nucleare israeliano, composto da oltre 200 testate nucleari e capace di accogliere all’incirca altre 20 bombe termonucleari all’idrogeno.

La motivazione ideologica di un simile gesto risulta chiara anche a noi, che di queste cose scriviamo a parliamo a distanza di quarant’anni (e nulla sembra essere cambiato…). L’ex tecnico nucleare riteneva che il possesso di armi atomiche in un’area instabile fosse una minaccia all’umanità, ma soprattutto una forma di ipocrisia politica. La realtà fattuale delle cose generava un disgustoso contrasto con il mito sionista di “piccolo Stato circondato ed assediato”, mito che avrebbe giustificato (e continua a farlo nel momento in cui scrivo) una politica militare aggressiva in nome di una poco credibile strategia difensiva.
Naturalmente la redazione del Sunday Times impiegò un bel po’ di settimane per verificare l’autenticità del materiale. Per farlo coinvolse addirittura esperti internazionali indipendenti. Così come si mosse l’autorevole giornale di Londra, fece lo stesso il caro buon vecchio Mossad. Mordechai Vanunu, ignaro o meno di essere sorvegliato, divenne bersaglio di un’operazione segreta per sottrarlo alla giurisdizione britannica e impedirgli di continuare a parlare.

La missione di cattura fu affidata agli infallibili servizi segreti israeliani. Cheryl Ben Tov, un’agente con passaporto americano che usava il nome in codice Cindy, sedusse Vanunu fingendosi un’innocua turista. La trappola prevedeva di portarlo fuori Londra: il governo inglese era ritenuto troppo sensibile alla stampa per accettare un’operazione illegale sul proprio suolo. Inoltre bisognava far distanziare l’informatore dalle sue guardie del corpo (pagate dal quotidiano inglese) così da rendere l’operazione scevra da danni collaterali.
Vanunu accettò un weekend a Roma. Non l’avesse mai fatto. In un appartamento della capitale, il 30 settembre 1986, gli agenti del Mossad prima lo drogarono e poi lo sequestrarono. Trasportato all’aeroporto di Ciampino in una valigia speciale, lo imbarcarono su una nave battente bandiera israeliana e infine su un aereo. Il 5 ottobre il Sunday Times pubblicò l’inchiesta. Anche se so che nessuno gli diede l’opportunità di farlo, mi piace credere che Mordechai Vanunu lesse il giornale da dietro le sbarre di una prigione di massima sicurezza a Tel Aviv.
Seguì il più classico dei processi giudiziari dall’esito già scritto. Il procedimento si svolse interamente a porte chiuse. Il governo israeliano sostenne che Vanunu avesse arrecato grave danno alla sicurezza nazionale, fornendo informazioni che avrebbero potuto consentire a paesi nemici di colpire i siti sensibili. La corte lo condannò a 18 anni di carcere con l’accusa di spionaggio aggravato e tradimento. La detenzione fu al limite della sopportazione umana, con 11 anni di isolamento parziale. Non abbiamo idea di cosa significhi…

Scarcerato il 21 aprile 2004, Vanunu si trovò, e si trova ancora oggi, sottoposto a misure di sicurezza che ne limitano la libertà. Ad esempio gli è proibito lasciare il Paese; non può avere contatti con persone che non siano israeliane (senza il consenso del Ministero dell’Interno); gli viene negato il possesso di un cellulare; non può assolutamente avere accesso ad internet o rilasciare interviste.
L’amara conclusione del “caso Vanunu” ci offre l’assist per un’ultima riflessione. Anzitutto chiediamoci quanto sia solida la legittimità politica dell’ambiguità nucleare. Israele, da decenni, non firma il Trattato di Non Proliferazione (TNP) e non ha mai ammesso di possedere armi nucleari, pur godendo di una tolleranza occidentale non concessa ad altri paesi (starnuto, Iran… dicevamo?). Poi osserviamo come il polverone alzato dalle rivelazioni dell’ex tecnico nucleare si sia solo posato, ma ciò che c’è sotto è simbolo di tacito assenso ancora oggi.
Per dirla in modo più semplice: ciò che Vanunu disse nel lontano del 1986 resta una verità anche nel presente. La Dimona di ieri è la Dimona di oggi, semmai potenziata per capacità produttiva. Secondo diverse stime (impossibili da comprovare), Israele possiede oggi tra le 80 e le 300 testate, anche se ufficialmente non lo ammette.