Chi vi scrive è del parere che storia e leggenda, sebbene attentamente distinte, posseggano egual valore. Mentre una si fonda (o si dovrebbe fondare) su basi oggettive e fattuali, l’altra trova espressione nella tradizione orale, nel racconto, in ciò che spesso non è possibile verificare. Eppure tanto una quanto l’altra forgiano l’identità di un gruppo umano, che si tratti di un’etnia, una comunità religiosa, una cittadinanza, ecc. La storia della strega di Port’Alba, Maria la Rossa se preferite, è una leggenda profondamente radicata nella tradizione orale napoletana. È una di quelle storie che si tramandano da secoli nei vicoli della città, tra luci fioche e ombre dense di mistero. A Napoli, dove la linea tra realtà e mito è spesso labile, Maria è diventata uno di quei personaggi che incarnano la paura e il fascino dell’arcano. Perché allora non raccontarvi della sua presunta esistenza?

Senza volervi inutilmente tenere sul filo del detto e del non detto, il titolo parla chiaro: è una leggenda e nessuna fonte storica fa concreto riferimento alla strega di Port’Alba. Tuttavia i luoghi in cui questa vicenda leggendaria si svolse sono tangibili ed hanno una loro storia. Chi bazzica la meravigliosa Napoli, saprà dove si trova Piazza Dante, una delle aree aperte più suggestive e iconiche della città partenopea. Sul lato nord dello spiazzo – un tempo chiamato Largo Mercatello – si distingue l’ingresso di Port’Alba. Posto speciale, poiché ricco di librerie e piccole botteghe dal sapore popolare.
Port’Alba non si è sempre chiamata così, anzi. Il nome è un retaggio del XVII secolo, in piena dominazione spagnola. Precedentemente i napoletani la soprannominavano Largo delle Sciuscelle, data la sostanziale presenza di alberi di carrube (i cui dolci frutti, le sciuscelle, normalmente graditi a cavalli ed asini, diventavano “dolci di strada” per la popolazione locale). Le mura angioine in quell’esatto punto erano poderose e a lungo i napoletani dovettero fare un noioso giro per varcare il centro cittadino, magari da Porta Reale o da Porta di Costantinopoli. Per non affrontare ogni volta il percorso, i residenti la risolsero a modo loro. Essi crearono una fessura nel muraglione, attraverso la quale poter passare. Il buco prese il nome di “pertuso”.

Nell’anno di grazia 1625, il viceré di Napoli, Antonio Álvarez de Toledo, V duca d’Alba, su una certa sollecitazione di Paolo di Sangro, nobilissimo principe di Sansevero, accolse la richiesta di trasformare il pertuso in un’ingresso monumentale, a patto che le spese fossero gravate sulle tasche dei residenti (in materia di compromessi il duca d’Alba aveva idee tutte sue, eh). Insomma, sotto il vicereame del de Toledo quel varco prese il posto della crepa e gli venne dato il nome del duca suo promotore: Port’Alba.
Piccola nota di colore, che non è funzionale alla storia ma è pur sempre una curiosità: un tempo sulla sommità dell’ingresso si trovava un affresco di straordinaria fattura generato dal talento di Mattia Preti, pittore calabrese discepolo di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio.

Ed ecco che introduciamo la giovane e avvenente Maria, anche detta la Rossa per il colore della sua chioma. Di bell’aspetto, sorridente e desiderata, con la sua pelle d’avorio Maria la Rossa faceva impazzire ogni uomo del quartiere. Peccato, per gli altri almeno, che fosse impegnata già in una relazione, con il prode Michele. L’uomo sembrava non avere difetti ed era sinceramente innamorato di Maria. Le chiese la mano, lei accettò e i due convolarono a nozze. La favola perfetta, si direbbe…
La leggenda è abbastanza chiara in merito. Essa dice che durante una notte movimentata, nella quale il cielo di Napoli fece i capricci, gettando a terra pioggia e saette, i due novelli sposi furono colti dal fattaccio. O meglio, Michele fu la vittima prescelta. Della morte? Assolutamente no, ma della proibizione.
Mentre la coppia rincasava correndo per non bagnarsi, giunti davanti Port’Alba, Michele si fermò. Fu come se qualcuno o qualcosa ne avesse frenato il moto muscolare. Come roccia granitica smise di muoversi; occhi fissi nel vuoto, piedi impiantati a terra, non un accenno, non una parola. Maria pensò ad uno scherzo almeno alle prime battute; poi però, notando l’assenteismo mentale del marito, iniziò a preoccuparsi. Nessuno sforzo, neppure quelli dei residenti che accorsero in strada ascoltando gli appelli di Maria, riuscì a smuovere Michele, bloccato da una forza misteriosa davanti Largo delle Sciuscelle.

Stremata dalla stanchezza, Maria se ne tornò a casa, senza l’amato, che da allora non si fece più vedere. La donna fu colta dalla pazzia; il senno venne smarrito e con esso il bell’aspetto. Cominciò ad atteggiarsi come una megera tenebrosa, furibonda con chiunque incrociasse il suo sguardo, mai composta. Dimagrì, le vesti si stracciarono man mano, assunse dunque la fisionomia della strega di Port’Alba. Allora iniziarono a circolare cattive voci sul suo conto, sul fatto che producesse elisir stregoneschi e che praticasse chissà quali riti oscuri.
Intervenne l’inquisizione, con un tribunale locale che la giudicò compromessa col demonio e meritevole della peggior condanna: la morte per inedia. Le autorità la ingabbiarono e la issarono proprio sotto il varco di cui si è parlato fino ad adesso. Sospesa sotto Port’Alba lanciò un ultimo anatema prima di morire: «la pagherete! Tutti! Voi, i vostri figli, i vostri nipoti. La pagherete!».

Il corpo di Maria, appeso nella gabbia, non si sarebbe mai realmente decomposto, al contrario si pietrificò. Le carni divennero di pietra, gli occhi spalancati nel marmo. Un miracolo oscuro, un monito permanente. Quel corpo fu rimosso solo dopo che la vista diventò insostenibile. Eppure, lo spirito di Maria, dice la tradizione, non ha mai abbandonato il posto. Port’Alba resta ancora oggi uno dei luoghi più evocativi e inquieti di Napoli: tra le librerie polverose e i vicoli antichi, l’eco della strega rossa continua a farsi sentire.