Fotografia di Neil Leifer, Astrodome di Houston, Texas, USA, 14 novembre 1966. Muhammad Ali manda al tappeto Cleveland Williams dopo 7 minuti e 8 secondi di tempo, spalmati su tre riprese, e caratterizzati da una miscela di ganci mortiferi che il primo gentilmente recapita sul mento del secondo. È Muhammad Alì vs. Cleveland Williams, una farfalla che affronta un gatto. Ciò che di meglio il pugilato mondiale poteva offrire al volgere degli anni ’60 dello scorso secolo. Del match rimangono impresse tante immagini, ma ce n’è una, una soltanto, che più di tutte può e deve essere ritenuta “quella per antonomasia”. Di quello scatto e di quell’incontro – definito da tanti osservatori il “più bello mai disputato da Ali” – mi piacerebbe parlarvi in questa sede.

Fino al 29 novembre del 1964 Cleveland “Big Cat” Williams è lo spauracchio della boxe. Su 69 incontri, ne ha persi solo 5. Un veterano del ring, nonché un miracolato dal Signore. Williams può giurare di aver visto l’aldilà passargli davanti gli occhi e svanire subito dopo; questo nella notte del succitato novembre ’94, quando un poliziotto della stradale texana dal grilletto facile gli rifila un proiettile calibro .357 Magnum prima sulla carrozzeria dell’auto, poi direttamente fra gli organi interni: colon e rene destro andati. L’anca fa da scudo e ferma il colpo. Perché il fattaccio? Forse perché Cleveland Williams è nero, forse perché è alticcio e poco propenso ad assecondare lo stop intimatogli dall’agente; presumibilmente ambo le cose.
Nonostante la paralisi parziale e le evidenti difficoltà motorie dei primi mesi, Big Cat rientra in pista e torna a gareggiare per il titolo dei pesi massimi WBC, NYSAC e The Ring. Lo fa dopo quattro ottime prestazioni, tramutatesi in quattro vittorie. Per carità, non a mani basse, ma quasi. Tutto lascia presupporre che il pugile di Griffin, Georgia, sia pronto ad affrontare l’altro nome grande, immenso e incommensurabile della boxe mondiale, un tempo Cassius Clay, dal 1964 – annus horribilis per Williams – Muhammad Ali. Crasi antropica fra una farfalla e un’ape. Ma questo non ve lo devo dire io.

Ali arriva all’incontro dell’Astrodome di Houston, in Texas, che di anni ne ha solamente 24 (contro i 33 di Williams). Ha già mandato al tappeto dei calibri imponenti: Sonny Liston, Floyd Patterson, il teutonico Karl Mildenberger. Il ragazzo di Louisville è nel pieno della sua potenza atletica: agile, lucido, dotato di un gioco di gambe e di riflessi fulminanti. Sembra voli come una farfalla e punga come un’ape. Statene certi, fa male da morire quando punge.
Acquistando biglietti che vanno dai modesti 5 ai ben più altisonanti 100 dollari, all’arena Astrodome giungono 35.460 anime, desiderose di vedere l’arroganza tipica della bella gioventù impattare sul granitico carapace di chi ha visto la propria vita interrompersi per qualche secondo, salvo poi riprendere più lenta di prima. È Muhammad Ali vs. Cleveland Williams, la farfalla che incontra il gattone.

Avete mai ascoltato un monologo? Bene, fate finta che al posto delle parole ci siano pugni e che invece di un palcoscenico compaia un ring bianco a corde nere. Il monologo resta, ma fa male quando ad accoglierlo non solo le orecchie bensì gli zigomi. Big Cat mantiene la guardia alta e gira in tondo per qualche minutino; The Greatest fa lo stesso, ma senza tenere i guantoni alti a protezione del viso. No, lui li distende quegli avambracci, attacca senza troppi complimenti. L’afflusso monosillabico di cazzotti ben assestati dura tre riprese; ne sarebbero bastate due.
In 7 minuti e 8 secondi Williams va giù tante volte, ma tante davvero. Cala il sipario e Ali mantiene saldo il titolo di campione, con le braccia alzate in aria esulta festosamente. Mike Tyson, che di boxe ne capisce più di me e te che stai leggendo questo articolo, definì “perfetta” la prestazione di Ali. I 35.000 e passa dell’Astrodome pensarono lo stesso al termine dell’incontro, che mai e poi mai si sarebbero persi, per nessun motivo al mondo. Così come mai e poi mai avrebbe potuto marcare assenza Neil Leifer, fotografo eccelso dall’autorialità delineata.

I suoi scatti non te li dimentichi; una volta che li vedi, rimangono incamerati in un piccolo cassetto della memoria. Uno di quelli che preferì occupare lo spazio di un armadio, invece di un umile cassetto, fu lo scatto zenitale raffigurante lo svolgersi del match di Houston. È un’immagine plastica, nata al termine del secondo round, quando un appesantito Big Cat sentì la coperta bianca di feltro cedergli sotto i talloni e per questo si sgretolò come un bastione di talco alla decima cannonata. Williams giù a quattro di spade; stessa posa, ma in verticale, la mantiene il festante Ali. La farfalla non ha vinto (ancora manca un minuto e otto secondi al termine) ma è come se l’avesse fatto.
La forza della fotografia è spaventosa. Ogni dettaglio seduce l’occhio di chi sa guardare. La composizione geometrica che tende all’impeccabile è suggerita solo ed esclusivamente dalla forma del ring, quadrato netto, circondato da una folla di spettatori e giornalisti in visibilio – gli stessi che 6 minuti e 8 secondi prima fischiavano come forsennati all’ingresso del 24enne di Louisville. Lo sport è anche questo.
Leifer, interrogato sul suo scatto preferito, ebbe a dire: «Tutti pensano che la foto che ho scattato ad Ali contro Liston nel 1965 sia la mia preferita – è stata addirittura definita la più grande fotografia sportiva di tutti i tempi. Ma la mia fotografia preferita è quella di Ali contro Williams, senza alcun dubbio. È l’unica delle mie fotografie appese a casa. Nella mia carriera ho fotografato di tutto, da Charles Manson al papa, ma non ho mai scattato una fotografia migliore di questa».