Fotografia del National Archives and Records Administration, Aeroporto internazionale di San Francisco, California, USA, 5 aprile 1975. Bambini vietnamiti, per lo più neonati ma non solo, si trovano su un volo diretto in Nord America. In fotografia vediamo solo una minima parte dei 3.300 circa evacuati dal Vietnam del Sud durante l’Operazione Babylift, svoltasi tra il 3 ed il 26 aprile 1975.

Nelle settimane immediatamente precedenti alla caduta di Saigon, gli Stati Uniti organizzarono una vasta evacuazione di massa di bambini dal Vietnam del Sud, diretti principalmente verso la costa occidentale statunitense, ma anche verso Australia, Francia, Canada e altri Paesi alleati.
L’Operazione Babylift, voluta dal presidente Gerald Ford e sostenuta da una rete di organizzazioni umanitarie internazionali, aveva come scopo dichiarato quello di salvare migliaia di orfani vietnamiti dal caos imminente. Le ultime settimane di guerra erano infatti segnate dal rapido avanzare delle forze nordvietnamite e dal crollo delle difese meridionali. Đà Nẵng era già caduta a marzo e Saigon si trovava sotto i bombardamenti. Le strutture che ospitavano i bambini erano ormai prive di rifornimenti e di personale sufficiente, e la prospettiva di una catastrofe umanitaria appariva inevitabile.
Il 3 aprile 1975, Ford annunciò ufficialmente il lancio dell’operazione. Un piano che prevedeva una trentina di voli di aerei militari C-5A Galaxy per trasportare i piccoli orfani in salvo. Ma la realtà, come spesso accade in tempo di guerra, si rivelò assai più complessa e dolorosa di quanto non apparisse nei comunicati ufficiali.

Innanzitutto, non tutti i bambini erano effettivamente orfani. Molti erano figli di madri vietnamite e padri americani – spesso soldati o civili legati alla presenza militare statunitense nel Paese – che rischiavano l’emarginazione o la violenza in caso di vittoria comunista. In altri casi, famiglie disperate affidarono i propri figli agli operatori umanitari nella speranza che almeno loro potessero sopravvivere. Ciò generò, negli anni successivi, un acceso dibattito etico sull’autenticità delle adozioni. Ma anche sulla legittimità di una separazione così radicale tra i bambini e la loro terra d’origine.
Il primo volo dell’operazione, partito il 4 aprile 1975 dall’aeroporto di Tan Son Nhat a Saigon, si trasformò in tragedia. Il gigantesco aereo da trasporto Lockheed C-5A Galaxy, con a bordo centinaia di bambini, assistenti e personale militare, subì un guasto catastrofico pochi minuti dopo il decollo. La porta di carico posteriore si aprì a causa di un difetto di aggancio, provocando una decompressione esplosiva e il danneggiamento dei sistemi di controllo.
L’equipaggio lottò disperatamente per mantenere il controllo del velivolo, ma l’aereo precipitò poco fuori Saigon, spezzandosi in quattro parti e prendendo fuoco. Il bilancio fu terribile: 138 vittime, tra cui 75 bambini e 35 membri del personale militare e civile. L’incidente, oltre a rappresentare una tragedia umana immane, gettò un’ombra sull’intera operazione.

Nonostante l’incidente, l’Operazione Babylift proseguì. Centinaia di altri voli civili e militari trasportarono in Occidente oltre 3.300 bambini (cifre di cui però non si ha certezza matematica). Molti di questi trovarono nuova vita in famiglie adottive. Un gesto di grande solidarietà fu quello dell’imprenditore Robert Macauley. L’uomo, appresa la difficoltà del governo americano nel garantire nuovi voli, noleggiò di tasca propria un Boeing 747 della Pan Am, ipotecando la sua casa per permettere a 300 orfani di lasciare Saigon.
A distanza di decenni, l’Operazione Babylift continua a suscitare sentimenti contrastanti. Già, perché se da un lato rappresenta un grande sforzo umanitario in un momento di collasso totale, dall’altro rimane un caso di ambiguità morale, oltre che culturale. Numerosi studiosi e associazioni hanno sottolineato come molti bambini non fossero orfani nel senso stretto del termine, ma fossero stati separati dalle proprie famiglie in modo frettoloso. In alcuni casi addirittura coercitivo.
Negli anni 2000 è nata l’iniziativa Operation Reunite, condotta da vietnamiti adottati in Occidente. L’iniziativa tenta di ricongiungere le famiglie separate da quegli eventi attraverso test del DNA. Molti di loro, cresciuti lontano dalla loro lingua e dalla loro cultura, hanno intrapreso un percorso doloroso di riscoperta identitaria.




