Fotografia di anonimo, Oceano Pacifico meridionale, 1955. Nella foto potete vedere il relitto della nave fantasma Joyita, un mercantile dal quale, nel 1955, scomparvero misteriosamente nel nulla 25 persone. Ancora oggi nessuno sa che fine abbiano fatto equipaggio e passeggeri.
La nave fantasma Joyita

Partiamo dall’inizio. La Joyita era un mercantile in legno lungo 21 metri. Costruito nel 1931 dalla Wilmington Boat Works di Los Angeles, in teoria in origine doveva essere uno yacht di lusso per il regista Ronald West. In effetti il cineasta diede all’imbarcazione il nome della moglie, l’attrice Jewel Carmenil (“Joyita” in spagnolo vuol dire “piccolo gioiello”).
Successivamente, nel 1936, la nave cambiò proprietario e andà alla Milton Beacon. Arriviamo al 1941 quando, subito prima dell’attacco a Pearl Harbor, la Joyita venne acquisita dalla Marina statunitense. In effetti, finì a Pearl Harbor, ma nel 1943 si incagliò, subendo gravi danni. La Marina decise comunque di ripararla perché aveva bisogno di navi. Solo che i nuovi tubi non erano di rame o ottone, bensì di ferro zincato.
Nel 1948 la nave andò alla società Louis Brothers, la quale decise di ricoprire lo scafo con un rivestimento in sughero. Inoltre aggiunse anche dei sistemi di refrigerazione. Nel 1952 la dottoressa Catherine Lumala la acquistò, salvo poi noleggiarle a un suo amico, il capitano Thomas Miller. Quest’ultimo decise di usarla come mercantile e come nave da pesca.

Arriviamo così a quel fatidico mattino del 3 ottobre 1955. Erano le 5 del mattino e la Joyita salpò dal porto di Apia, nelle Samoa, per andare sulle isole Tokelau. Si parla di un viaggio di 430 km. In teoria la nave doveva partire il giorno prima, ma dovettero ritardare la partenza a causa di un guasto. E anche quando riuscì a partire, lo fece con un solo motore funzionante.
Sulla nave c’erano sedici membri dell’equipaggio e nove passeggeri. Fra di essi c’erano un funzionario governativo, il dottor Alfred Dennis Parsons, un commerciante di cocco secco e due bambini. Il carico, invece, era formato da legname, forniture mediche, barili di petrolio vuoti e alcuni generi alimentari.
Il viaggio doveva durate 41-48 ore e l’approdo alle isole Tokelu era previsto per il 5 ottobre. Solo che il 6 ottobre della nave non c’era alcuna traccia e così il porto di Fakaofo segnalò il ritardo. Controllando, nessuna nave o porto aveva ricevuto un segnale di soccorso da parte dell’equipaggio. Il che era decisamente strano.
Così si decise di organizzare una missione di ricerca e soccorso. Gli aerei della Royal New Zealand Air Force, dal 6 al 12 ottobre, perlustrarono un’area di 250mila chilometri quadrati. Ma niente da fare: non c’era nessuna traccia né del Joyita né dell’equipaggio o dei passeggeri.
Cinque settimane dopo, il 10 novembre, Gerald Douglas, capitano della nave mercantile Tuvalu, annunciò di aver avvistato la Joyita. L’imbarcazione andava alla deriva verso nord, a più di 950 chilometri a ovest rispetto alla rotta prevista.
Come vedete nelle foto scattate all’epoca, la nave era molto inclinata (tutta la sentina era allagata) ed era parzialmente sommersa. Quattro tonnellate del carico si erano volatilizzate, così come tutti i membri dell’equipaggio e i passeggeri: spariti nel nulla.
La squadra di soccorso intervenuta sul posto segnalò diversi fatti strani:
- la radio era sintonizzata sulla frequenza 2182 kHz, cioè quella del canale internazionale di soccorso marittimo radiotelefonico. Tuttavia c’era un’interruzione fra il cavo e l’antenna. Curiosamente il cavo era verniciato, cosa che nascondeva la rottura. Il che avrebbe limitato la portata della radio a soli 3 km
- la presenza di ostriche al di sopra della linea di galleggiamento indicava che la nave era inclinata da parecchio tempo
- il ponte era danneggiato, le finestre rotte
- sul ponte qualcuno aveva installato una tenda
- non c’erano né le scialuppe di salvataggio né la barca che il mercantile aveva con sé
- non c’erano abbastanza giubbotti di salvataggio per tutti
- nella sala macchina c’era una pompa ausiliaria collocata fra i motori principali, solo che non era collegata
- gli orologi elettrici della nave erano fermi alle 10:25 e tutti gli interruttori della luce era in posizione On. Il che voleva dire che tutto era accaduto di notte. Qualsiasi cosa fosse accaduta
- sulla nave mancavano il diario di bordo, il sestante, il cronometro, molte apparecchiature di navigazione e le armi da fuoco
- sul ponte, abbandonata, c’era una borsa da medico contenente uno stetoscopio, un bisturi e quattro bende macchiate di sangue
- i serbatoi contenevano ancora carburante. In base a quanto ne mancava, la nave aveva percorso 400 km prima di essere abbandonata a poca distanza da Tokelau
La nave venne poi portata al porto di Suva. Solo a quel punto ci si accorse di una cosa. Nel momento del ritrovamento, lo scafo e i ponti inferiori erano allagati, ma lo scheletro sembrava intatto. Arrivati in porto, però, i soccorritori sentirono il tipico rumore di acqua che entrava nella nave. Poterono così scoprire che un tubo del circuito dell’acqua del sistema di raffreddamento del motore era corroso e danneggiato. L’equipaggio avrebbe potuto accorgersi della perdita solamente quando l’acqua fosse arrivata sul pavimento della sala macchine.

Solo che in quel momento sarebbe stato impossibile capire da dove venisse la perdita. E anche se si fossero accorti del problema, le pompe avrebbero potuto fare ben poco visto che i filtri erano intasati di detriti.
L’ipotesi principale è che la nave fosse già in pessime condizioni quando era salpata. L’inchiesta che seguì al recupero riuscì solo a spiegare che la nave si era allagata a causa della rottura del tubo di raffreddamento e che le pompe non funzionavano perché intasate. Ma questo non spiega che fine abbiano fatto passeggeri ed equipaggio. Perché abbandonare volontariamente la nave con le scialuppe? La nave era rivestita di sughero e conteneva tantissimi barili vuoti, quindi era comunque in grado di galleggiare.
La colpa di tutto venne attribuita al capitano Miller. A lui si imputò il fatto di aver pianificato un viaggio in mare aperto con solo un motore funzionante e una nave danneggiata a più livelli. Inoltre era reo di non avere una radio funzionante, un canotto equipaggiato e di aver lasciato scadere la licenza per il trasporto di passeggeri.
Tuttavia l’inchiesta ignorò del tutto la borsa da medico e quelle bende insanguinate. Chi conosceva Miller, cercò di difenderlo sostenendo che lui doveva sapere bene quanto fosse inaffondabile la nave. Forse era rimasto ferito (da qui le bende insanguinate) e impossibilitato a gestire la situazione, ecco che gli altri andarono nel panico quando la nave iniziò ad allagarsi, scappando sulle scialuppe di salvataggio. Solo che questa teoria non spiega perché mancassero parte del carico e delle attrezzature. A meno che qualcun altro non avesse trovato prima la nave, saccheggiandola.
C’è anche chi pensò a un coinvolgimento di navi giapponesi o di un sottomarino sovietico, ma non c’erano prove in tal senso. Forse un ammutinamento guidato dal primo ufficiale, Chuck Simpson? Certo, fra Miller e Simpson non correva buon sangue, ma anche Simpson era un marinaio sufficientemente esperto: non avrebbe mai abbandonato la nave sulle scialuppe di salvataggio nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Ancora oggi nessuno sa cosa ne fu di tutti quei passeggeri e membri dell’equipaggio.