Il 10 marzo del 1302 viene applicata la seconda condanna per corruzione nei confronti di Dante Alighieri. Il Sommo Poeta da quel giorno non vedrà più la sua amata patria, Firenze. Oggi sappiamo molto di quest’uomo in grado di cambiare per sempre la percezione comune dell’arte poetica, capace di segnare più epoche con il suo pensiero ma soprattutto con le sublimi opere, prima fra tutte, la Divina Commedia.

Se tanto sappiamo, alcuni lati della vita di Dante sono meno conosciuti, talvolta ignorati. Ad esempio si fa sempre riferimento all’esilio che perdurò 20 lunghissimi anni, dal 1301 fino al 1321, ma difficilmente ci si sofferma sui capi d’accusa. Quello che faremo nelle seguenti righe sarà proprio questo: analizzare in breve le motivazioni dietro la condanna dell’illustre poeta.
Prima un accenno al contesto generale. Nella Firenze tardo-duecentesca, vige uno scontro ideologico e politico tra guelfi neri (vicini al Papa) e guelfi bianchi (vicini all’imperatore). Dante, uomo di spicco nell’amministrazione fiorentina, cerca la mediazione tra le parti, non avendo troppo successo.

Considerato un elemento scomodo dai suoi detrattori, ovvero i guelfi neri, questi prendono il potere in città e senza pensarci due volte lo bersagliano. Quali sono i capi d’accusa? Corruzione, appropriazione indebita, frode, pratiche sleali, malizia e di aver ostacolato il lavoro di Papa Bonifacio VIII al tempo in cui quest’ultimo era priore. Ah, quasi dimenticavamo, qualcuno ha pensato bene di definire Dante un pederasta.
Tra i reati appena citati, quello che pesava maggiormente era proprio la corruzione, allora intesa come “baratteria“. In un sistema sociale, come quello comunale italiano, in cui la cosa pubblica era ritenuta sacra e difendibile costi quel che costi, essere accusati di baratteria faceva male, molto male.

Ad oggi la quasi totalità degli studiosi ritiene che le accuse rivolte verso Dante fossero prive di fondamento e strumentalizzate a scopo politico. Ma se volessimo essere fatalisti, allora diremmo che a loro modo, tali insinuazioni hanno modificato il corso della storia, permettendo a Dante di fare ciò che poi ha fatto, ovvero affermarsi non come “un poeta” ma come “il poeta”.