Almanacco del 3 novembre, anno 1996: un incidente stradale non lontano dalla cittadina di Susurluk, nella provincia turca di Balıkesir, provoca la morte di Abdullah Çatlı, il fondatore dell’organizzazione terroristica, ultranazionalista di destra, e panturchista, “Lupi Grigi”. L’accaduto, che in un primo momento poteva lasciar intendere una “semplice” fatalità, scatenò un vero e proprio scandalo, capace di smuovere le fondamenta dello stato repubblicano turco e di screditare, agli occhi della popolazione, l’intera classe dirigente nazionale degli ultimi trent’anni. In un certo senso si può dire che dagli eventi del 3 novembre 1996 scaturì parte della recentissima storia turca, che meglio conosciamo.

Nella prima serata del 3 novembre 1996, a bordo di una Mercedes 600 SEL lanciata a quasi 180 chilometri orari viaggiavano quattro persone. Si conosce l’identità – e il trascorso – di tutti e quattro. La figura più nota era quella di Abdullah Çatlı, sicuramente il più grande criminale turco, nonché uno dei più temuti terroristi allora in circolazione in Europa. Il curriculum di Çatlı parla da solo: ex militante neof.ista, fondatore dei Lupi Grigi – in superficie ramo giovanile del partito ultranazionalista Milliyetçi Hareket Partisi, in realtà organizzazione eversiva volta alla destabilizzazione del clima democratico nazionale – criminale ricercato per omicidi e traffico di droga. Un tipetto a modo, insomma.
Gli altri tre, benché meno in vista del padre-padrone dei Lupi Grigi, erano comunque esponenti di spicco della sfera del potere in Turchia. Vi era dunque Hüseyin Kocadağ, un alto funzionario di polizia. Gonca Us, ex reginetta di bellezza e compagna di Çatlı. Infine Sedat Bucak, un deputato del Parlamento turco e signore della guerra curdo, a capo di una milizia filo-governativa. Egli fu l’unico sopravvissuto all’incidente.
Adesso chiediamoci: cosa ci facevano quattro personalità così ideologicamente e professionalmente distanti fra loro nello stesso abitacolo incidentato? Se lo chiesero anche le autorità turche, oltre che la stampa e il mondo libero di esprimersi. Alla domanda si trovò subito una risposta, la più tremenda per chi crede nelle istituzioni democratiche, nel senso civico, e nell’affrancata partecipazione politica popolare. Su quella Mercedes viaggiava lo Stato profondo turco. Viaggiava il nesso fra la criminalità organizzata e il governo. Nesso che si traduceva, di volta in volta, in complicità.

Oltre all’allegra compagnia, l’auto distrutta dall’impatto con un camion nascondeva delle prove che – come se non fosse già abbastanza – rendeva più esplicita la collaborazione Stato-mafia. Nel bagagliaio la gendarmeria trovò droga, documenti d’identità falsi, passaporti diplomatici, addirittura armi e tanto, troppo denaro contante.
Su Abdullah Çatlı è doveroso dire molto di più. Solo così si comprende davvero la centralità di quest’uomo nel malaffare internazionale. Çatlı era certamente un uomo d’azione. Anzi, un killer al servizio di una causa che egli considerava patriottica. Nel corso degli anni aveva partecipato a operazioni clandestine contro i membri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e dell’organizzazione armena ASALA. Due teste di ponte per la politica delle minoranze in Turchia, e per questo avversate (più o meno pubblicamente) da Ankara e dai suoi servizi segreti. Uno come Çatlı, che non si faceva scrupoli a sporcarsi le mani, rappresentava un “male sopportabile”.
Nel 1978 ci fu il massacro di Bahçelievler, in cui sette studenti di sinistra furono brutalmente assassinati. Çatlı era uno dei responsabili materiali della strage. Pochi mesi dopo aiutò Mehmet Ali Ağca – esatto, proprio colui che avrebbe poi attentato alla vita di Giovanni Paolo II – a uccidere il giornalista Abdi İpekçi e a evadere dalla prigione militare di Istanbul.

Il nostro Çatlı era tanto capace in casa quanto all’estero. La sua parabola si intrecciò inevitabilmente con quella delle organizzazioni internazionali volte all’eversione dello status quo. Secondo diverse inchieste, aveva avuto contatti con il neof.ista italiano Stefano Delle Chiaie e con la struttura segreta Gladio. Ricordate? Era parte del dispositivo NATO “stay-behind” in Europa.
In Francia, dove visse sotto falso nome, organizzò attentati contro gli attivisti armeni e, secondo testimonianze giornalistiche, partecipò persino a operazioni di traffico di droga per finanziare attività politiche e militari. A Parigi lo arrestarono nel 1984. L’accusa: traffico di stupefacenti. Condannato a sette anni di detenzione, ne scontò sei prima di evadere grazie a chissà quale forza divina. Le classiche complicità mai del tutto chiare.
Tornò quindi in Turchia. Nonostante fosse un latitante ricercato per omicidio, lo Stato profondo lo volle reintegrare, per godere dei suoi sporchi, ma utilissimi, servigi. Polizia e servizi segreti lo usarono come agente irregolare per condurre “operazioni speciali” contro il PKK e contro i presunti nemici interni dell’esecutivo. Da lì in avanti, Çatlı divenne una pedina essenziale nel sistema di potere occulto che legava insieme politica, intelligence e criminalità. Una rete che trovava copertura nelle alte sfere del Ministero degli Interni.

Noi torniamo all’incidente del 3 novembre 1996. Secondo alcune fonti, il sinistro non fu accidentale ma provocato: i freni dell’auto sarebbero stati disattivati a distanza per eliminare tutti i passeggeri, forse per impedire che venissero alla luce dettagli compromettenti sui legami tra lo Stato e la criminalità organizzata. Peccato che proprio l’episodio contribuì a scoperchiare il vaso di Pandora.
Da quell’episodio nacque una delle più vaste crisi di fiducia nella storia della Repubblica turca. Le piazze si riempirono di manifestanti che chiedevano verità e giustizia, dando vita alla cosiddetta “protesta di Susurluk”, durante la quale milioni di cittadini spensero simbolicamente le luci di casa per un minuto ogni sera, in segno di protesta contro le alte sfere e il cosiddetto potere parallelo della Repubblica.




